L’alienazione parentale esiste? Dopo che la Cassazione ne ha negato la scientificità, possiamo ancora parlare di PAS?
La teoria dell’alienazione parentale
La PAS, o Sindrome da Alienazione Parentale, è una teoria sviluppata dal medico statunitense Richard Gardner e postula il coinvolgimento dei figli minori nei confronti di un genitore. E’ stata anche definita “sindrome della madre malevola”, poiché nell’immaginario collettivo si declina al femminile per via della riconosciuta esistenza di una residua “maternal preference” nei giudizi di separazione. Secondo la teoria della PAS, chi pratica l’alienazione provoca lo sbilanciamento dei sentimenti dei figli in suo favore, fornendo una raffigurazione talmente negativa dell’altro genitore da provocarne il rifiuto.
Attualmente, dopo l’ordinanza Cass. 286/2022, e prima ancora con l’ordinanza Cass. 13217/2021, la teoria sta perdendo autorevolezza e sembra sconsigliato invocarne l’esistenza per difendere le ragioni del proprio assistito. Il motivo? Si tratterebbe di una teoria priva di un reale fondamento scientifico.
Tutela della bigenitorialità
Anche se la Cassazione non riconosce la scientificità della PAS, la tendenza alla denigrazione è un fenomeno che esiste a prescindere da come lo si voglia chiamare. Resta, quindi, l’esigenza di tutelare la bigenitorialità e serve a poco domandarsi se l’alienazione parentale esiste o meno. Il mettere in cattiva luce uno dei genitori agli occhi dei figli è un comportamento che ogni Tribunale considera illecito. In particolare, ciò che costituisce illecito è la “triangolazione”, vale a dire la partecipazione attiva dei figli nella guerra della coppia e la cancellazione violenta di una delle due figure genitoriali.
E’ importante chiamarla Alienazione Genitoriale?
Anche se non la chiamiamo PAS, la tendenza a cancellare la figura dell’altro genitore esiste e se ne ha dimostrazione ogni giorno nei tribunali, dove la conflittualità di coppia non sfugge all’esame del giudice.
Il magistrato, quando rileva un eccessivo coinvolgimento dei minori, di solito dispone una CTU (Consulenza Tecnica d’Ufficio) per valutare il grado di compromissione del nucleo familiare.
In genere, ogni CTU suggerisce un percorso di sostegno alla genitorialità presso un centro accreditato.
Dopo un periodo di osservazione, il giudice valuta i progressi della coppia e riconsidera la condizione familiare. Nel caso in cui non vi siano stati progressi apprezzabili, il giudice prenderà atto del fallimento del percorso di sostegno alla genitorialità e adotterà provvedimenti più drastici, quali, ad esempio, il collocamento dei figli in casa famiglia.
L’affidamento ai servizi sociali è la prassi usuale in tutti i casi di conflittualità estrema. Non è infrequente, inoltre, che affidamenti di questo tipo si protraggano sino al compimento della maggiore età dei figli.
Cosa fare contro un partner conflittuale
Un soggetto manipolante ha in genere scarso interesse a sottoporsi a un percorso di recupero. L’atteggiamento che spesso si riscontra è quello di una forte resistenza alla psicoterapia, vissuta come un’ingiusta intrusione nel rapporto con i figli. L’obiettivo dell’alienante è mantenere lo stato delle cose, poiché indubbiamente i figli hanno già fatto propria una concezione dispregiativa dell’altro genitore.
Ricorrere al diritto penale è solitamente poco fruttuoso, sia per i lunghi tempi del giudizio, sia per l’elevatissimo numero di archiviazioni in ambito familiaristico.
Uno dei migliori rimedi offerti dalla procedura civile, invece, è il ricorso ai sensi dell’art. 709 ter cpc, attraverso il quale si può chiedere -sia in pendenza di separazione/divorzio giudiziale che indipendentemente da un preesistente procedimento- che il giudice applichi opportune contromisure nei confronti del genitore che impedisca un sano rapporto con i figli. Le contromisure in questione andranno dall’ammonizione, all’ammenda, sino alla revisione completa delle condizioni dell’affido.
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